Mi sveglio presto e smonto tutto. Avendo lasciato una parte del telo esterno aperto su un lato, questa notte non si è formata condensa. La tenda è asciutta e posso riporla immediatamente.
Riprendo a pedalare, e raggiungo il centro del paese. Sono quasi le nove di mattina, sull’insegna di una farmacia c’è il termometro. Segna trenta gradi – mi sento già male – perché so che appena tornerò in pianura sarà ancora peggio. Sono finite le fresche giornate sulle Dolomiti con le temperature che oscillavano tra i nove ed i sedici gradi.
Alle ore undici, arrivo finalmente al Rifugio Balasso. Siccome mi sento particolarmente spossato ne approfitto per fare sia l’aperitivo che pranzo, visto che la cucina apre solo tra un’ora. Una birra ed affettati mentre scambio due parole con qualche turista di passaggio, di fronte alle pareti di roccia famose sopratutto tra gli scalatori.
Alle 12 in punto vengo fatto accomodare in sala, e dopo il rapido controllo del green pass sono pronto per ordinare.
Mangio una grande bistecca con un bel piatto di insalata: sono il primo ad essere servito, e quindi subito pronto a riprendere il viaggio. Mancano circa venti minuti di salita e poi dovrebbe esserci solamente una lunga discesa fino a Rovereto. Arrivo trafelato al Passo Pian delle Fugazze, siamo a 1163 metri sul livello del mare, ma tra tutti i passi scalati finora è stato uno dei più duri. Sarà stato il caldo, saranno le due settimane di viaggio ininterrotto, non saprei dirlo. Ma la fatica oggi si è fatta sentire e sono felice di aver concluso questa ascesa. Purtroppo però, il navigatore mi segnala ancora un paio di salite prima di Rovereto, e la cosa mi fa tutt’altro che piacere. Inizio a scendere per qualche chilometro lungo una bella statale secondaria, senza auto in strada, ma con moltissime auto parcheggiate, segno inequivocabile di una forte affluenza di persone per una gita fuoriporta domenicale.
Alla fine arriva il momento tanto temuto. La salita. Un chilometro e duecento metri con una pendenza oltre il 12%. Non ci penso un secondo a scendere dai pedali e spingere la bici. Sento le energie fluire dal mio corpo, anche per via dell’enorme sforzo fisico che faccio nello spingere la bici carica, completamente a braccia. Se inizialmente pensavo che un chilometro e qualche centinaia di metri a piedi li avrei superati in poco tempo, dopo poche decine di metri mi ricredo e mi fermo a lato della strada. Come se non bastasse la carreggiata si fa più stretta e la visibilità scarsa a causa delle numerose curve presenti. Inoltre l’unica striscia di ombra è situata sul lato opposto al mio senso di marcia, per cui dopo essermi fermato al riparo dal sole, riparto “contromano” spingendo sempre la bici sul ciglio della strada.
Questo tratto di strada, da silenzioso, in discesa, ombreggiato e panoramico si trasforma rapidamente in un inferno. Le braccia non ce la fanno quasi più, sto grondando di sudore, le auto (poche per fortuna) sfrecciano come se ci fossero due carreggiate e visibilità piena. Mi fermo di nuovo. Bevo. Guardo in navigatore: ancora mille metri. Riparto. Mi fermo, guardo il navigatore. Novecento metri. Riparto. Altra sosta. Settecentocinquanta metri. Poi seicento. Cinquecento cinquanta. Un’auto mi supera a velocità moderata e il conducente mi guarda perplesso. Sì, sono perplesso anche io. Quattrocento metri. Trecento. Duecento venti metri: è il momento. Risalgo in piedi sui pedali ed esco finalmente da questo incubo. Spingo le ultime centinaia di metri con le poche energie residue e finalmente ci siamo. La salita, questa salita, è terminata: ora posso riposare un po’ sulla discesa successiva, fino alla prossima e ultima salita.
Mi tocca ancora l’ultima salita, breve e non troppo ripida prima di concludere la mia discesa complessiva nella città di Rovereto. Arrivato in centro apro Google Maps per una rapida occhiata sulle principali attrazioni. Un gelateria attira la mia attenzione e spendo i successivi dieci minuti mangiando un gelato all’ombra, seduto sul marciapiede dirimpetto. Vedo persone anziane passeggiare per le strade della città e subito vorrei fermarle per spiegare loro i concetti oramai saldamente scolpiti nella mia testa, spiegati egregiamente ogni estate da Studio Aperto: state a casa nelle ore più calde, bevete tanta acqua.
Non so come facciano a passeggiare sotto il sole a quest’ora e con trentasei gradi all’ombra.
Inizialmente il mio itinerario prevedeva una capatina al lago di Tenno, sull’altra sponda del lago di Garda rispetto al mio arrivo. Ma mi bastano davvero pochi istanti, alla fine della discesa, per determinare il cambio di rotta. Da Rovereto fino a Verona dovrebbe esserci una ciclabile, quella dell’Adige che corre sulle sponde e sui canali dell’omonimo fiume. Confido nel fatto che, snodandosi lungo il fiume, le temperature siano un po’ più clementi, e che magari con un pò di fortuna si possa anche trovare uno slargo per fare un bagno e darsi una rinfrescata.
Mi metto a seguire il percorso del navigatore, e supero agevolmente la città anche grazie alla presenza di lunghi tratti ciclabili. Dopo poco la pista esce dal centro abitato e si butta in mezzo a distese di vitigni che sembrano non finire mai. Sono completamente circondato; il profumo che sprigionano è molto forte, tanto da riuscire a darmi ugualmente un senso di ebbrezza, anche grazie allo spettacolo che mi circonda.
Ad una delle poche fontane presenti lungo il tracciato mi fermo per rifornirmi d’acqua. Un signore, proveniente in senso opposto, attacca bottone e mi racconta del suo Cammino di Santiago in bicicletta in sella alla sua Specialized. Mi lascio cullare dai suoi racconti di viaggio, riassaporando per qualche istante le memorie di quel pellegrinaggio che ha lasciato un segno indelebile nella mia testa.
Rinvigorito da questo inaspettato incontro riprendo a pedalare alacremente, in un sali e scendi armonioso, a volte veloce mentre altre volte più lento e tranquillo. La ciclabile salta svogliatamente da un argine del fiume al canale destro, e si snoda a perdita d’occhio mentre gli ultimi raggi di sole baciano i miei capelli.
Proseguo a pedalare senza una meta precisa, il caldo asfissiante della pianura mi ha già fatto modificare l’itinerario, per cui mi godo il paesaggio bucolico e continuo finché il buio, o la stanchezza o entrambe non avranno il sopravvento sul mio fisico. Alla fontana successiva effettuo l’ennesimo rifornimento della giornata. Chiedo indicazioni ad un ciclista di passaggio che mi rassicura che la ciclabile continua sicuramente sino a Verona. Facendo un rapido calcolo, dovrei tagliare fuori la città poco prima, nei pressi di Affi.
Arrivo a Rivoli Veronese e l’ultimo raggio di sole mi saluta per scomparire rapidamente dietro le montagne alla mia destra. Mi fermo qualche istante ad un punto panoramico raggiunto nel momento giusto per fare qualche foto e per riprendere il fiato. Consulto la mappa, domani dovrei essere a Milano, sicuramente. Ma la strada che mi aspetta ora non è che mi faccia impazzire. Qualche strada secondaria mi dovrebbe condurre sulle rive del Lago di Garda, e di lì una bella pianura Padana mi riporterà a casa.
Decido di continuare con il buio. Accendo le luci della bici e proseguo verso il lago.
Viaggio per diversi chilometri su strade secondarie, strette dove ad ogni auto che passa sono costretto a viaggiare pericolosamente vicino al cordolo. Il buio dilaga e mi fermo per tirare fuori il k-way giallo fluorescente e la torcia frontale che posiziono sul casco. Continuo così fino a Lazise dove mi siedo una manciata di minuti su di una panchina ad ammirare il lago di notte. Inizio ad essere stanco, ma voglio continuare.
Saltando tra una pista ciclabile e l’altra supero Gardaland, Peschiera del Garda ed arrivo a Desenzano. L’unico hotel economico del paese ha solo una stanza, doppia, al terzo piano e senza ascensore. Sono le undici e mezza e non accetta di farmi uno sconto, siccome sono da solo. Mi dice che sicuramente arriverà qualcun’altro a prendere la stanza. Senza nemmeno troppo rammarico lo ringrazio, ed esco. La stanza è mal messa, seppur l’hotel sia vicino alla stazione, e non avendo un garage per la bici evito felicemente di dovermela portare in spalla per tre piani. Proseguo ancora un po’, superando il centro cittadino. Sono vicino all’ospedale, a pochi chilometri dalla stazione e trovo un bell’oliveto curato e con l’erba bassa.
Butto a terra la bici e il telo mimetico e tiro fuori solamente il sacco a pelo. Mi raggomitolo dentro e provo a dormire qualche ora. E’ mezzanotte passata, e controllo l’itinerario per domani ma anche gli orari dei treni.
Alle 6:09 domattina parte il primo in direzione Milano. Punto la sveglia alle 4:50: i chilometri che mi separano dalla stazione sono gli ultimi di questa avventura. Ho le pile scariche, tra un paio di giorni ricomincerò a lavorare e sono soddisfatto.
Non ho chiuso il giro, ma sento davvero inutile farlo. Quello che volevo vedere l’ho visto, ho pedalato anche di notte al buio, come un ultracyclist, come non avevo mai fatto. Domani un treno mi permetterà di superare indenne gli ultimi cento chilometri che mi separano da casa. E va bene così.
Una coppia con un bellissimo cane nero arriva poco distante da me, e lascia libero il cane di correre tra gli ulivi. Dopo diversi minuti mi scorgono (a causa dei rifrangenti della bici che non ho coperto) e si avvicinano – ma rimangono a circa quindici metri di distanza – per chiedermi se va tutto bene. Li rassicuro dicendo loro che mi sto riposando qualche ora, che viaggio in bici e che domattina presto sarei ripartito. Mi augurano buon viaggio, pur non avendo minimamente scorto il mio viso a causa del buio. Mi riaddormento ancora più tranquillo…