Alle 4:30 mi alzo, dopo essermi svegliato di soprassalto un paio di volte durante la notte. Smonto tutto, riporto su le borse, slego la bici, carico per bene e riparto facendo ben attenzione a non urtare con le borse nella stretta passerella pedonale.
La salitona per rientrare sulla strada principale dura circa cinquanta minuti. Imbocco lo stradone principale che si dirige verso nord. Capisco che questi primi sette giorni in bici iniziano a dare i loro frutti: la gamba, già ben allenata, gira bene nonostante i cinque chilometri di salita di prima mattina.
La strada è un falso piano in salita per diversi chilometri, ma a causa delle poche ore di sonno inizio ad addormentarmi mentre sono in sella, per cui stabilisco che mi devo assolutamente fermare per fare colazione. Poco più avanti inizierà una salita di quindici chilometri quindi decido di entrare nell’unico paese incontrato da un’ora e cinquanta minuti dopo la partenza. Il primo bar nel quale mi fermo ha tutta l’aria di non accettare carte, ed essendo rimasto senza contanti chiedo indicazioni per il bancomat più vicino. Nell’approciarmi allo sportello passo dinnanzi ad una piccola bancarella di frutta ed un chioschetto che vende pane e brioche. Una volta prelevato -1000 kuna -, ne approfitto subito per prendere un chilo di albicocche per poi dirigermi verso il bar più vicino antistante la piazzetta di questo piccolo paesino. L’attività è prettamente ittica, infatti alcuni pescatori sono in procinto di sistemare le barche dopo una mattinata passata in mare aperto con le reti.
Mi siedo ad un tavolo, a fianco di due cicloturisti tedeschi che avevo intravisto poco prima. Gli chiedo come va e mi confidano che erano partiti con l’idea di andare in Grecia, ma hanno deciso di tornare indietro perché in Albania ci sono quarantuno gradi e per loro è troppo caldo. Presumo complice anche il fatto che non sono molto mattinieri, per cui non riescono a sfruttare le prime, e più fresche, ore del mattino. Stanno tornando verso la Slovenia con l’idea di caricare le loro bici su un FlixBus che li riporterà in Germania.
La loro esperienza mi demoralizza temporaneamente. Ci rifletto su dopo che se ne sono andati. Sapevo che avrebbe fatto molto caldo, e non avevo un altro periodo in cui potessi prendere ferie. So anche che, il mattino presto e la sera fa meno caldo, per cui si pedala meglio. Ho pedalato in questi giorni sotto un sole cocente, intorno ai quaranta, quarantuno gradi e capisco cosa possono aver provato questi ragazzi. Però sono consapevole che, una volta abituato a svegliarmi presto la mattina, riesco a sfruttare queste ore per pedalare almeno fino a mezzogiorno o poco oltre. E di solito è in questo lasso di tempo che faccio la maggior parte dei chilometri giornalieri. Mi faccio coraggio, è già metà mattinata e il calore si sente. Devo ripartire, ma non prima di aver preso anche una brioches al chioschetto, dopo al cappuccino.
Mi fermo a mangiare la brioches su una panchina, e due splendidi giovani gatti mi si avvicinano, incuriositi dagli odori delle mie borse. Uno dei due, il più sfrontato, mi sale in braccio per raggiungere meglio l’estremità superiore della borsa, per annusarla. Ne approfitto per accarezzarlo, sembra molto domestico, mentre gli scatto alcune foto. Poco dopo arrivano due bambini, che vorrebbero accarezzare i gatti, ma questi ultimi scappano via appena i ragazzini si fanno troppo vicini.
Mi metto a scrivere il diario delle giornate precedenti, mentre una signora esce da una porta dietro di me alla ricerca dei suoi gatti. Le indico la direzione in cui sono andati prima di tornare al mio diario.
Sono le 9, è tempo di andare. Da qui in avanti mi aspetta una lunga e dura salita. La strada più ripida, devia fortunatamente dallo stradone principale, per cui per alcuni chilometri ci sono solo io, la mia bici, e qualche sparuta pianta. Alterno rampe in piedi sui pedali, a tornanti leggeri in cui riesco a pedalare seduto. Alle 10:30, a dieci chilometri dalla fine della salita sono esausto. Mi sdraio all’ombra sull’asfalto. Fa caldo, e salendo mi sono tornate in mente le parole dei ragazzi tedeschi che mi hanno nuovamente abbattuto.
Sono steso in mezzo alla strada, all’ombra di un albero, sul caldo asfalto e ripenso a questo viaggio, al perché sto facendo questo itinerario. Al motivo che mi ha spinto a intraprenderlo in bici. Se io voglio fare una cosa la faccio. Se fa caldo, e lo sapevo, lo metto in conto prima di partire. Se necessario viaggio di notte. Non sono il tipo di persona che parte e poi si lamenta, si arrende e torna indietro. Il tornare indietro – e di questo ne abbiamo già parlato – nella mia testa equivale ad una sconfitta. Se avessi voluto il vento a favore sarei andato in barca a vela.
Rinfrancato dalla sosta, e dal mio monologo mentale riprendo a salire. Al mio ritmo. Costante. Ci metto più di due ore, e mi fermo in media tre volte ogni chilometro. Il caldo è asfissiante e la pendenza al limite delle mie possibilità. Se questa mattina, dopo i primi cinquanta minuti in salita, ho pensato che fossi allenato, adesso sono decisamente di tutt’altro parere.
In una delle molteplici soste, mentre sono all’ombra all’interno di una piccola radura a bordo strada, sopraggiunge un signore ad un buon ritmo, anche lui con la bici semi carica. È francese e mi spiega che ha un fuoristrada 4×4 parcheggiato a valle con il quale viaggia e si sposta abitualmente. Ogni mattina fa il suo giro in bici (elettrica) per tenersi in forma ed esplorare la zona in cui si trova. Si ferma a parlare con me per dieci minuti circa, fermo in mezzo alla strada, sotto il sole. Vedo le gocce di sudore scendergli copiosamente sulla faccia, mentre invidio le sue borracce ancora mezze piene incastrate nel telaio della sua bici. Ci salutiamo e riparte spedito.
Proseguo in salita ma da questo momento in poi è più dolce, decisamente meno faticoso. Inizia un bello sterrato, sul quale incrocio una casa dalla quale mi salutano. Faccio male a non fermarmi perché dalla mappa vedo che non ci sono più case, ne altri possibili approvvigionamenti di acqua per almeno quindici, venti minuti. Per lo meno la salita adesso prosegue, per alcuni tratti, all’ombra.
Arrivo in cima e torno sulla strada asfaltata. Google mi mostra una punto panoramico a poche decine di metri da me, e ne approfitto per fare un salto visto che sembra esserci anche una specie di bar. E’ un negozietto di souvenir, dotato di un frigo elettrico con qualche bevanda. Mi prendo una coca e mi siedo ad uno dei tavoli presenti. Dopo pochi minuti anche la signora che gestisce il chiosco si siede con me allo stesso tavolo. Accenna un discorso con le poche parole di inglese che conosce, e finiamo entrambi ad usare Google Translate per comunicare. Mi scrive che è macedone, e viene qua ogni anno per fare la stagione in questo posto. Lavora praticamente tutto il giorno quassù, da sola, per poi rientrare alla sua casa in affitto a valle. Così per sei mesi l’anno. Durante l’inverno poi rientra al suo paese natale in Macedonia. Capisco che non sia un lavoro semplice, ma dalla disinvoltura con cui si destreggia tra le varie applicazioni, intuisco che sappia come far passare il tempo.
Essendoci una fontana poco distante le chiedo se posso riempirmi la borraccia. Mi dice che quella fontana non funziona, e pur di non farmi pagare l’acqua, mi prende la borraccia dalle mani, e mi accompagna ad una tanica d’acqua di cinque litri che tiene dietro al suo bancone. Mi riempie la borraccia e ma la restituisce con un sorriso. Le sono davvero grato per questo gesto, e riparto con un po’ più di serenità in testa. La pausa, il posto panoramico, i discorsi tradotti dal macedone mi hanno dato un po’ di sollievo dalle fatiche del giorno.
D’ora in avanti la strada dovrebbe essere in discesa, qualche tratto in piano e poche salite. Contavo di arrivare a Plitvice entro sera ma realizzo ben presto che è tempisticamente impossibile. Complice la lunga salita e le numerose pause fatte per non morire di stenti, ho impiegato un’eternità per arrivare sino a questo punto. Non arriverò al parco naturale prima di domani.
Alla fine della discesa c’è un ristorante molto turistico, ma anche molto invitante. Subito dopo inizia un tratto in salita per cui non mi fermo. A poche centinaia di metri dal ristorante trovo una piazzetta con una chiesetta e due alberi alla giusta distanza per tirare la mia amaca. Cambio idea in un batter d’occhio e decido così di fermarmi al ristorante e poi spendere le ore più calde della giornata all’ombra di questi alberi. Mangio un bel piatto di costine che mi vengono servite con la giusta lentezza, accompagnate da una birra locale e un po’ di insalata. Finito di pranzare mi sposto sul piazzale della chiesetta, piazzo la mia amaca e mi riposo all’ombra, cullato da un leggera brezza, per circa due ore.
Dopo essermi messo un po’ di crema solare, riparto con una leggera salita, che mi riporta subito con i piedi per terra. Ho poca acqua, e al primo bar che incontro lunga la strada decido di fermarmi. Sto percorrendo una strada provinciale a bassa frequentazione, e lo intuisco sopratutto quando entro in questo bar, e mi dicono che non fanno nulla da mangiare, posso solo bere. Ottimo penso tra me e me. Ordino una coca e mi siedo fuori sotto il porticato a guardare le balle di fieno rotolare insieme ad un signore croato che cerca di parlarmi senza successo. Faccio fatica a capire cosa mi vuole dire, e anche Google traduttore non mi è di aiuto. Dopo un po’ desisto, e rispondo al mio interlocutore in italiano, con risposte che credo siano almeno in parte inerenti alle domande che mi fa. Conversazione surreale, oserei dire. Rientro nel bar per pagare, farmi riempire una borraccia di acqua e inforco nuovamente la mia bici.
Dopo Brinje, e dopo aver completamente abbandonato l’idea di arrivare al Parco Naturale di Plitvice, vedo un signore che innaffia le piante in giardino. Sono leggermente in discesa e nel realizzare che mi serve un po’ più di acqua per cucinare e lavarmi, ci metto un po’ a fermarmi. Mi arresto qualche decina di metri più avanti e faccio un bel dietro front in mezzo alla strada deserta. Mi avvicino al cancelletto della casa, tiro fuori la borraccia e con l’altra mano la indico, facendo finta di bere dalla borraccia vuota. Il signore mi fa un cenno e mi invita ad entrare. Mi apro il cancelletto dall’esterno e mi avvicino. Tiro fuori tutte le borracce vuote, mentre il signore lascia scorrere un po’ l’acqua perché dice che l’ha appena accesa ed è acqua del pozzo, ma potabile. Quando gli dico che sono italiano gli si illuminano gli occhi. Rispolvera le poche parole di italiano che conosce e mentre mi riempie le borracce mi invita a prendere delle pere dal tavolo in cui sua moglie le ha appena depositate dopo averle raccolte dal loro albero. Io, molto umilmente, ne prendo una, e il signore quasi si offende dicendomi che ne devo prendere almeno sei o sette. Raggiungiamo un compromesso a quattro, e scelgo volutamente le più brutte. Li ringrazio calorosamente e carico tutta l’acqua sulla bici.
Rincuorato da questo splendido e fortunato incontro inizio a cercare un posto sulla mappa dove potermi accampare. Il sole tramonterà a breve e non voglio dover cercare uno spiazzo con il buio. Dopo qualche chilometro vedo una radura ed una strada sterrata che ci si infila dentro. La seguo e dopo pochi metri la boscaglia lascia lo spazio ad una enorme prateria, lontano da occhi indiscreti. Mi sistemo comodamente con la tenda e mi godo il tramonto cucinando un po’ di pasta con il fornelletto. Sono un po’ rammaricato dei pochi chilometri fatti oggi, e lo si legge nei pochi messaggi che mando a casa, corredati dalla posizione GPS di dove trascorrerò la notte.
In compenso però, anche questa sera, il cielo stellato mi regala una volta celeste da lasciare senza fiato, e se sarò fortunato potrò vedere qualche animale domattina presto. Con questi pensieri mi metto a dormire, per recuperare le energie per l’ultimo pezzo di strada prima del parco naturale.